Prima di parlare dello studio URBAN, bisogna fare una distinzione. I trial clinici sono degli studi clinici condotti in popolazioni relativamente ridotte di pazienti selezionati e in contesti protetti; pertanto, la trasferibilità dei risultati di questi studi alla popolazione trattata nella pratica clinica a volte risulta dubbia. Gli studi di “real life” riportano invece i dati già abitualmente raccolti come parte della pratica clinica e rappresentativi delle popolazioni reali e dell’assistenza effettivamente erogata; questi studi rappresentano quindi un passaggio importante per la convalida dei dati ottenuti dai trial clinici.
Il Professor Antonio Pinto, direttore del Dipartimento di Ematologia Oncologica e Trapianto dell’Istituto Nazionale Tumori, Fondazione Pascale IRCCS di Napoli, presenta alcune informazioni derivanti dallo studio URBAN. Lo studio URBAN rappresenta a livello mondiale il primo trial di “real life” volto a valutare l’efficacia e la sicurezza della combinazione obinutuzumab-chemioterapia nella routine clinica per il trattamento di prima linea del linfoma follicolare.
Lo studio URBAN è condotto in 46 centri sperimentali italiani, ed ha fino ad ora coinvolto 266 pazienti. I dati preliminari dello studio sembrerebbero confermare l’efficacia del trattamento con obinutuzumab, in termini di risposte complete alla terapia documentate mediante PET (circa l’84%).
Inoltre, dalle analisi preliminari condotte, continua il Professor Pinto, lo studio URBAN ha avuto come risultato inaspettato quello di mostrare quali sono stati gli atteggiamenti di molti ematologi d’Italia nella gestione dei pazienti con linfoma follicolare durante la pandemia da Covid-19. In particolare, gli effetti della pandemia sono stati principalmente due: 1) sono stati arruolati pazienti in fase più avanzata di malattia e con maggiori sintomi; 2) rispetto agli standard, è stata meno frequentemente utilizzata la combinazione di obinutuzumab e bendamustina. Il Professor Pinto spiega che entrambi questi aspetti hanno una motivazione. Nel primo caso si è cercato di spostare il più avanti possibile l’inizio dei trattamenti nella speranza di una riduzione del rischio legato alla pandemia; questo ritardo ha fatto sì che i pazienti arrivassero alla terapia in stadio più avanzato e con più sintomi. Nel secondo caso, si è cercato di evitare la bendamustina in quanto questo farmaco riduce in maniera consistente l’attività e il numero delle cellule T oltre che B.