- by Martina Manni
- 20 Giugno 2024
Un po’ di tempo fa abbiamo incontrato Michele, che ora ha 45 anni e che nel 2012 ha avuto un linfoma di Hodgkin. Gli abbiamo fatto qualche domanda e lui ha condiviso con noi la sua esperienza.
Michele, come ha avuto inizio la tua storia?
Vent’anni fa, nel 2003, mi è stato diagnosticato un carcinoma della tiroide guarito dopo trattamento con tiroidectomia radicale e radioiodio. Qualche anno dopo, durante una normale ecografia di controllo, l’endocrinologo ha notato dei linfonodi ingrossati in sede claveare. A seguito dei dovuti accertamenti mi è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin classico, variante sclerosi nodulare, stadio IIIA. Era maggio 2012 e avevo 35 anni. Questa nuova diagnosi è stata del tutto inaspettata: non avevo avuto alcun sintomo, nessun segnale che mi facesse pensare che qualcosa non andasse. Dovendo iniziare il trattamento, i medici mi hanno proposto di essere inserito in un protocollo sperimentale che prevedeva due cicli di terapia con ABVD e i successivi cicli di terapia sulla base della risposta valutata con la PET. Nel mio caso questo si è tradotto in 6 cicli di ABVD terminati a dicembre 2012 al termine dei quali ero in risposta completa. Fino a quel momento io non sapevo esattamente cosa significasse essere inserito in un protocollo sperimentale, e ho preferito evitare di informarmi in autonomia per non imbattermi in notizie poco affidabili o accurate. Mi sono fidato dei medici che mi avevano in cura i quali mi hanno spiegato tutto nei dettagli e hanno chiarito qualsiasi dubbio io ponessi loro.
C’è un punto che voglio sottolineare: prima dell’inizio del trattamento, i medici mi hanno proposto la conservazione del seme, a causa della sterilità a cui la chemioterapia poteva portare. Allora non avevo una relazione e non pensavo ad avere figli, ma sapere di avere ancora questa possibilità in futuro è stato rassicurante.
Il momento peggiore, forse più della diagnosi stessa, è arrivato a febbraio 2014 quando la malattia si è ripresentata. Anche se, dopo lo sconforto iniziale, ho affrontato la situazione con la mia solita grinta. Sono stato nuovamente inserito in un protocollo sperimentale e sono stato sottoposto a chemioterapia, raccolta di cellule staminali e trapianto autologo. Quest’ultimo percorso fisicamente è stato il più impegnativo. Alla rivalutazione post trapianto, a maggio 2015, ero nuovamente in risposta completa. Sono in osservazione da allora.
Chi ti è stato accanto durante il tuo percorso?
Alcuni amici, da cui mi aspettavo maggiore sostegno, sono quasi spariti. Ho capito successivamente che il loro atteggiamento era dovuto non alla mancanza di interesse ma ad una difficoltà nel relazionarsi con me in quella circostanza, soprattutto nel vedermi pallido, senza sopracciglia e senza capelli. Da parte invece di altre persone ho avuto una inaspettata vicinanza, in particolare durante il periodo del trapianto. Una semplice chiamata mi dava una grande energia. Le persone che più di tutte sento di ringraziare sono mia cugina Serena, che per me è come una sorella. I miei genitori, che ne avevano già passate tante e, finché ho potuto, ho cercato di far pesare loro la situazione il meno possibile; in particolar modo mia mamma Leonella che mi accompagnava in ospedale assieme a mia cugina: loro non mi hanno mai mollato. Un’altra persona fondamentale è stata la mia carissima amica Maria Rosa, che ha saputo starmi vicino con una presenza costante ma molto discreta. Ed infine molti amici soprattutto tra gli alpini, che hanno reso il lungo cammino per l’uscita dalla malattia più lieve e luminoso. A tutti loro va la mia riconoscenza e gratitudine.
Se parlo con persone che hanno amici o familiari in cura, io insisto sempre “stategli adesso, non mollateli”. Spesso loro mi chiedono: “Ma cosa devo scrivere? Come va? Va male per forza!” Ed io rispondo: “Sì, è vero. Ma fidati che senza va peggio”.
Alcuni studi hanno dimostrato che un ambiente ospedaliero sereno è fondamentale affinché il paziente reagisca al meglio alla malattia. Quale è la tua esperienza in merito Michele?
Io sono una persona ottimista e dal carattere forte e non ho mai pensato che non sarebbe andata bene o che la terapia potesse non funzionare. Mi sono sforzato di mantenere un atteggiamento positivo e questo mi ha aiutato tanto ad affrontare la malattia. Il clima che si respira una volta varcata la soglia dell’ospedale gioca un ruolo importante in questo. La mia è stata una esperienza più che positiva. Ho trovato fin da subito un ambiente familiare, e nei mesi ho scoperto persone fantastiche e disponibili, dal personale della reception a infermieri e infermiere, dai medici ai volontari che distribuivano caramelle in Day Hospital. Inoltre, ho sempre chiesto ai medici che mi avevano in cura di dirmi la verità senza tanti giri di parole; e così è stato da parte loro: una comunicazione diretta ed efficace, ma allo stesso tempo con un tatto e una delicatezza che non tutti possiedono.
La malattia ha avuto ripercussioni sul tuo lavoro?
Io sono un giardiniere e la mia fortuna è stata quella di lavorare in un ambiente dove più che colleghi ci sentiamo una famiglia. Tutti mi hanno detto “Vai, curati, e non preoccuparti del lavoro. Vieni a lavorare quando puoi e quando te la senti”, che non è poco. Mi sono confrontato con altre persone, che mi hanno raccontato delle esperienze pessime sul posto di lavoro durante la malattia. Io facevo terapia il martedì ogni due settimane e rimanevo a casa fino alla domenica, ma la settimana tra una somministrazione e quella successiva tornavo a lavorare. Ero partito molto “rambo”, poi ho capito che dovevo rallentare, anche perché il mio è un lavoro fisicamente pesante. Inoltre dovevo fare attenzione all’esposizione solare, e ricordo che dovevo usare maniche lunghe e protezione solare alta. Solo dopo il trapianto ho dovuto fermarmi completamente per sei mesi. Sapere di avere un posto sicuro al mio ritorno e non avere preoccupazioni per il lavoro è stato un sollievo.
Pensi che la malattia abbia cambiato la tua vita? In che modo?
Dal punto di vista fisico, a parte dei crampi e dei problemi ai denti, ho recuperato completamente e ho ripreso la mia vita di sempre come prima della malattia. Mi reputo fortunato per questo, soprattutto quando ricordo ciò che ho visto in ospedale. Per il resto, dopo la malattia sono cambiate tanto le prospettive e le priorità. Tante cose che prima reputavo importanti sono diventate delle sciocchezze. È anche vero che col passare degli anni dopo la guarigione, fortunatamente o sfortunatamente, ci si riabitua a stare bene e quindi questo atteggiamento un po’ viene meno.
Da quando ha avuto inizio il mio percorso ho cercato, nel mio piccolo, di fare qualcosa per le altre persone che affrontano la stessa esperienza. Facevo e faccio tuttora parte dell’Associazione Nazionali Alpini che ogni anno sceglie una causa benefica a cui destinare dei fondi. Ho proposto così un’iniziativa che potesse rendere più comodo e accogliente l’ambiente ospedaliero. La proposta è stata ben accolta dall’associazione in quanto è una causa nella quale molti membri si sentivano coinvolti. Abbiamo così organizzato eventi di raccolte fondi e siamo riusciti a realizzare un grande progetto: dapprima abbiamo donato al centro oncologico sei monitor per i parametri vitali, e successivamente abbiamo interamente finanziato l’acquisto di nuove poltrone per la sala d’aspetto del Day Hospital. Quando facevo terapia io c’erano le sedie in legno! In seguito, scherzando, mi è stato detto “adesso i medici si arrabbiano, perché i pazienti si addormentano sulle poltrone”, e per me è stata una bella soddisfazione. Avere anche questo obiettivo da raggiungere mi ha aiutato e mi ha incoraggiato ad andare avanti.
C’è altro che vorresti aggiungere?
Una cosa che mi è rimasta impressa. Quando ero in cura, andare in ospedale era ormai diventata un’abitudine. Una volta però, tornato per un controllo, ho varcato la porta dell’ospedale e ho realizzato: “questo non è il mio posto”. Il fatto che andare in ospedale non fosse più una prassi mi ha fatto pensare che le cose andavano bene. L’allungarsi dei tempi tra un controllo e l’altro è stato bello. Ora quando torno in ospedale mi fa piacere incontrare nuovamente i medici che mi hanno seguito e porto loro sempre qualche dono come il panettone a Natale o le ciliegie in estate, ma non potrò mai ripagarli abbastanza per quello che hanno fatto per me. Qualsiasi cosa sarà sempre poco.