
- by admin
- 30 Maggio 2015
Era una delle solite lezioni di università. Una delle tante. O forse no. C’è qualcosa di nuovo sotto la mia mandibola: non avevo mai visto prima d’ora un linfonodo gonfio.
C’è qualcosa di preoccupante, dicono i medici, ma i mesi passavano senza risposte, le domande si accavallavano una sull’altra e sempre più spesso mi trovavo a fantasticare sulla mia salute.
Immaginavo di avere gravi malattie e pensavo a come mi sarei comportato in una situazione così difficile, ma dopo le nuvole dei pensieri, ritornava il sole nella mia mente: “Sto bene, sono giovane e non accadrà proprio a me”.
Così pensavo, fino al giorno in cui fui costretto a dire addio al mio linfonodo per far posto ad una nuova consapevolezza: ero malato. Lessi la diagnosi dentro gli occhi di mia madre (Stefania, mese di ottobre, NdR) e nel suono della sua voce che chiamò il mio nome mentre rientrava a casa.
“Linfoma di Hodgkin”, così recitava il verdetto scritto su un foglio assieme ad altre ingarbugliate stringhe di vocaboli medici. Ero incredulo e nella mia mente riecheggiava solo quel nome. Forse lo avevo sentito prima in qualche film o in qualche trasmissione scientifica, ma il mio nuovo nemico non aveva ancora un volto ben definito. Leggere su internet informazioni sulle malattie spesso non è producente, ma è quello che ovviamente feci per comprendere cosa accadeva dentro di me e nuovi dubbi si accatastarono sui precedenti. Nella mia nuova confusione l’unica certezza che trovava un suo posto naturale era cercare di guarire.
Non fu facile cominciare questo percorso soprattutto perchè non riuscivo a rassegnarmi al fatto di subire trattamenti così invasivi su un corpo che non manifestava alcun segno di disagio. Mi trovai nella condizione di scegliere come curarmi, ma che competenze ha uno studente di psicologia nel decidere quale delle molte polichemioterapie sia la migliore? Nessuna. Sentii le vertigini di questa scelta. Non c’era più tempo per pensare, decisi solo di tenere i miei capelli lunghi: questo fu il criterio con cui scelsi la terapia che mi ha permesso di guarire il mio corpo.
Sì, il solo corpo, perché molti professionisti intorno a me sembravano dimenticarsi di ciò che vive dentro di esso.
L’ospedale sembrava una grande catena di montaggio: le persone tante e il tempo non molto.
La cura è un concetto ampio che purtroppo non ho sentito realizzarsi completamente nell’iter ospedaliero, ma che grazie all’inesauribile sostegno di mia madre ho potuto intraprendere nella Lampada di Aladino, grazie alla quale ho potuto non solo guarirmi, ma anche curarmi.